Intervista Marco Diamantini (Cheap Wine)


Esce oggi il nuovo album dei Cheap Wine “Faces”, undicesimo lavoro in studio della band pesarese che da più di vent’anni, continua il suo percorso di rigorosa fedeltà al rock. Una buona occasione per approfondirne i temi in questa conversazione con Marco Diamantini autore e vocalist di quella che resta una delle migliori espressioni della musica prodotta in Italia.
Come sempre, i lavori dei Cheap Wine hanno un tema conduttore che lega i testi di tutte le canzoni come nei “concept album”, seppure non secondo lo schema rigoroso di questi. Partiamo con l’idea di fondo che ha portato alla composizione di “Faces” e le differenze che introduce rispetto al precedente “Dreams”.
L’idea di fondo è quella che abbiamo scritto nella scheda di presentazione del disco. Ci sono una serie di personaggi, che si sentono fondamentalmente spaesati, fuori posto come dei disadattati. Non capiscono la realtà che li circonda e chi hanno intorno, e non comprendono il modo di ragionare degli altri e le logiche che dominano e governano la società in cui vivono. L’ambito in cui si muovono è simboleggiato dalla città, infatti la parola “town” ricorre molto spesso nelle canzoni.
Città intesa non come luogo fisico ma insieme della comunità che ci vive.
Esatto. Una comunità dove i protagonisti delle canzoni non si ritrovano: dal senso di spaesamento che provano, partono le storie dei singoli brani. Le facce sono quelle della gente che incontriamo ogni giorno, che magari siamo portati a giudicare in maniera superficiale, senza pensare che dietro ogni volto si nasconde una storia. Le storie e le emozioni delle persone mi affascinano da sempre e mi portano ad analizzarle e scandagliarle per poi inserirle nei miei testi. Tutta questa umanità che osservo, si porta dietro una faccia che molto spesso ci inganna al primo impatto, in positivo o negativo, senza considerare cosa ci sia dietro. Questo è quello che mi affascina ed incuriosisce e stimola il mio lavoro.
L’impressione che ho avuto è che l’io narrante  di “Faces” dopo i sogni di “Dreams”  si sia risvegliato nuovamente nella “Beggar Town” che lo opprimeva. Infatti già nel brano d’apertura “Made to Fly” parli di questa città in cui “nessuno riesce a guardarmi negli occhi” e la descrivi come “una prigione senza sbarre”. Sembra che la positività che si immaginava potesse esserci dopo “Dreams” non sia arrivata, forse perché i tempi in cui viviamo sono sempre bui e non si vede uno spiraglio di luce.
Avevo detto che la trilogia finiva con “Dreams” ma mi pare che tu non ci creda. Però hai ragione, perché io ho sempre voluto descrivere la parabola umana, le mie sensazioni, le emozioni e la vita che c’è dentro di noi: per questo, in qualche modo hai ragione, perché la storia continua. La nostra vita ha sempre delle fasi: c’è quella della disperazione, quella della disillusione e poi quella del sogno, che poi è quella che ci aiuta ad andare avanti e pretendere di avere qualcosa di meglio. Cercare di migliorare quello che abbiamo e quello che siamo, ed in qualche modo avere un’idea di futuro. Queste fasi fanno parte della vita e restano. Momenti che hanno avuto la loro importanza e restano con noi, finendo per riproporsi a ciclo continuo. In questo disco ho voluto sottolinearlo ancora di più anche perché queste fasi si ripresentano fin dalla mia adolescenza. Forse questa “fase adolescenziale” non è mai finita e di conseguenza è sempre stata presente in tutti i dischi che ho composto”. 
Credo che su questo incida anche la condizione dei musicisti rock in questo Paese che non consente a chi lo suona, né di diventare una star né un onesto mestierante che possa vivere di musica. Soprattutto oggi, perché nonostante anni e anni di dischi prodotti o di musica ascoltata, tutti noi che ci occupiamo di musica rock in Italia, non possiamo che sentirci inadeguati e messi ai margini.
Personalmente credo che dietro questa nostra perseveranza ci sia una sorta di malattia mentale che ci porta ad andare avanti e continuare. Ma questo fa parte di noi e senza non sapremmo stare, perché in fondo rappresenta la nostra vita.
Questo è il “Rock’n’roll is a state of mind” che canti in “Misftit” ed è ormai adottata come frase manifesto del disco.
In effetti io l’ho usata un po’ con un intento polemico. Nel senso che oggi il rock è diventato una sorta di caricatura di sé stesso. Quello che ascolti in determinate radio o vedi in alcune trasmissioni televisive, sono dei cliché che vengono ripetuti e, a volte, ridicolizzati. Come se il rock si riducesse ad un logo pubblicitario, ad un tatuaggio, oppure ad una bottiglia di birra. Non è niente di tutto questo. Il rock fondamentalmente è un’inquietudine, qualcosa che hai dentro e che per noi si traduce in qualcosa da suonare o magari da ascoltare. Sono determinati suoni o determinati umori nei quali ti riconosci.  È uno stato d’animo e non un oggetto di marketing. “Misfit” parla proprio di questo: cos’è la musica rock per me e quale impatto ha avuto sulla mia vita. 

Anche “Faces” nasce dal crowdfunding dei fans al quale vi siete dovuti arrendere per stato di necessità. Tutto questo però non ha limitato il vostro percorso di crescita, dando ancora maggiore soddisfazione a chi vi ha sostenuto sulla fiducia. A loro e a tutti coloro che lo acquisteranno, voi oggi, dopo più di vent’anni di carriera, regalate un disco che si pone ai vertici di tutta la produzione targata Cheap Wine.
Questi sono giudizi che lascio a voi, perché se da un lato questa è la mia sensazione che si ripete ogni volta che finiamo un disco nuovo, alla fine quello che avverto io conta poco. Quando produciamo un nuovo disco dobbiamo essere sicuri che ci piaccia, perché è fondamentale che, in quel momento, l’album riesca a rappresentare quello siamo: come musicisti, come band e come persone. Capisco bene che il mio giudizio non possa essere oggettivo, perché sono troppo coinvolto nella cosa. I giudizi li lascio a voi che ascoltate il disco e magari lo fate vostro. Per noi credo abbia contato, come sempre, l’atteggiamento che abbiamo avuto in fase di composizione, perché non ci siamo fermati a riproporre le cose che sono andate bene in precedenza. “Dreams” è un disco che è andato molto bene, che ha avuto un sacco di consensi ed è stato molto apprezzato. Sarebbe stato relativamente semplice realizzare un Dreams parte seconda e cullarci su quegli allori. Ma noi abbiamo sempre avuto voglia di andare avanti, di scoprire nuovi sentieri, di cercare delle deviazioni nella strada che stiamo percorrendo. Abbiamo sempre cercato di non ripeterci. Questa è la base per mantenere freschezza e sfuggire prevedibilità e banalità. Questo per noi è fondamentale, perché il rock non deve essere noioso o, peggio, prevedibile. Ovvio che noi restiamo sempre i Cheap Wine, con i nostri tratti distintivi, ma è fondamentale cercare delle deviazioni nel nostro percorso, perché vogliamo evitare che chi mette su il disco abbia poi la sensazione di averci già ascoltato o possa pensare che facciamo sempre la stessa “roba”. Magari non sempre si riesce a centrare l’obiettivo, ma è l’atteggiamento di fondo che conta.
La sensazione che ho avuto io è quella di scoprire un gruppo molto più coeso che in precedenza. Sentire la sezione ritmica che non fa solo da sostegno ai brani, ma è anche protagonista con piccole sfumature o particolari arrangiamenti, i campionamenti o le parti di tastiera messe in loop da Alessio Raffaelli, persino gli assoli di chitarra di Michele Diamantini, che ci sono sempre, non appaiono come determinanti nell’economia dei brani, ma si inseriscono in un inaspettato unicum che caratterizza ogni singola canzone. Più che quelli, che rappresentano un marchio di fabbrica, mi hanno sorpreso molto i giri di chitarra di grande impatto usati da Michele. Per non parlare poi della maturità che si coglie nelle tue parti vocali. Più che davanti a cinque bravi musicisti, ci si trova dinanzi ad una grande band.
Io ci ho sempre tenuto che ogni membro della band desse il suo contributo ai brani che compongo. Io porto i brani e la melodia, ma poi in fase di arrangiamento si lavora insieme per dare la veste definitiva alle canzoni. I Cheap Wine non sono formati da turnisti o comprimari ma da cinque musicisti che, ognuno con la sua personalità, hanno eguale rilievo all’interno del gruppo. In ogni disco dei Cheap Wine, per me è importante che venga fuori la capacità espressiva di ogni singolo musicista con il suo strumento: è una cosa questa alla quale ho sempre tenuto. Ci si evolve e si cresce, e quando questo avviene si arriva a quello che dicevi tu. Se invece una band è governata dall’ego di una singola persona che sovrasta tutti, allora non funziona: e secondo me quando si verifica questa situazione, viene danneggiata la qualità artistica e messa a rischio l’armonia interna del gruppo. Una band deve essere l’espressione di ogni suo componente.
Seguendovi dai tempi di “Pictures” (primo mini album prodotto n.d.i.) ho vissuto da ascoltatore ed osservatore esterno tutta la vostra produzione e conseguente evoluzione. Per questo posso affermare che in ”Faces” troviamo delle canzoni veramente notevoli che fanno di questo disco uno dei migliori da voi mai prodotti. Penso a brani come “The Swan and the Crow”, “Head in the Clouds” la già citata “Misfit” o la title track, ma potrei citarle tutte. Tutte canzoni che in qualche modo “sorprendono” chi come me vi conosce profondamente, ma anche chi vi ascolta per la prima volta, purché lo faccia con la giusta attenzione. Come sempre tu usi molte metafore per far parlare i singoli protagonisti dei brani.
Come sai, ho sempre amato usare le metafore, quando non sono banali. E mi piace fare ricorso a delle immagini che riescano ad esprimere un concetto in maniera più ampia rispetto alla parola diretta. Credo che la metafora sia molto funzionale all’efficacia delle atmosfere musicali e allo sviluppo della capacità di immaginazione.  
Sono diventate più raffinate.
Sì, ti trasportano in una dimensione più onirica, anche perché con il ricorso alle immagini, si esprime un concetto in maniera molto più completa ed efficace che non esprimendosi in maniera cruda e diretta. Credo sia anche più affascinante esprimere certe sensazioni in questo modo. Credo che guardando alla natura ed al mondo che ci circonda si possa trovare qualsiasi riferimento, perché lì dentro c’è tutto.
Il cigno che si trasforma in un corvo sembra quasi qualcosa di angosciante ma come dicevi prima parlando delle facce che in realtà nascondono molto altro e non bisogna fermarsi all’apparenza, in questo brano è un concetto espresso benissimo. La città ti abbruttisce e mostra di te in superfice l’aspetto turpe del corvo che in realtà ha “qualcosa di grande che splende dentro di me”.
È una canzone che alla fine porta un messaggio di speranza perché nella frase conclusiva dice che “in questa città un cigno non diventerà mai un corvo”. Ma non mi piace spiegare i testi perché li scrivo e poi li lascio lì a disposizione di chi ascolta e che li può interpretare come meglio crede. 

Come sempre accanto all’uscita di un nuovo disco si prepara un tour di supporto. Che aspettative avete?
Sarà sicuramente un tipo di concerto molto diverso da quello del tour di “Dreams” che era un disco fatto di atmosfere molto più avvolgenti, brani suonati in punta di dita, molto scarni. Questo invece è un disco pieno di suoni, molto energico, più nervoso e quindi sarà un concerto molto diverso. A me il tour di “Dreams” era piaciuto un sacco, sicuramente uno dei migliori portati in giro in questi vent’anni di attività, anche perché abbiamo avuto una risposta dal pubblico straordinaria, soprattutto dal punto di vista dell’attenzione. Il concerto di “Dreams” chiedeva molto al pubblico, nel senso che non era un concerto scatenato, ma era un concerto rock molto d’ascolto e per questo a me era piaciuto molto. Ora credo che proporremo un concerto più fisico e meno “mentale”, anche se credo che la nostra attitudine a creare delle atmosfere si sia mantenuta anche in questo nuovo disco. Avere dei pezzi nuovi più energici, non significa non averli collocati su certe atmosfere, per cui sono molto curioso circa la risposta che arriverà dal pubblico. 
Pensate quindi di accompagnare i nuovi brani con il recupero di altri dal passato più remoto o cercherete di restare più fedeli alle ultime produzioni?
Sicuramente ci appoggeremo ai dischi più recenti, anche se in verità non abbiamo ancora pensato alla scaletta standard che porteremo sui palchi, perché ci stiamo concentrando a provare i brani nuovi e poi vedremo.
Ancora una volta il disco esce nel mese di ottobre e, per una curiosa coincidenza avvenuta altre volte, esce giorno 3. Pensi che questo sia il periodo migliore per pubblicare un nuovo album?
Come sai da noi l’estate si ferma un po’ tutto e tra l’altro noi nei mesi estivi suoniamo molto poco, mentre nel periodo invernale abbiamo molte più richieste. Questo è il periodo in cui riparte un po’ tutto ed è il momento migliore per avere un po’ più di attenzione.
Come sempre accade nei vostri dischi, anche la grafica di “Faces” è molto curata. II vostri volti in coperti che dai lati confluiscono verso il centro quasi a comporre un volto unico che risalta proprio unendo il tuo volto e quello di tuo fratello Michele, che naturalmente sembra che siate una sola persona. Poi il tutto è caratterizzato da questo tratto di colore rosso che nasconde gli occhi di tutti quasi a creare un piccolo alone di mistero.
Sinceramente non saprei cosa risponderti perché è un’idea del grafico Federico Pazzi Andreoli al quale abbiamo lasciato carta bianca per esprimersi. Tra l’altro all’interno del cd, sollevando il disco c’è questa immagine strana dove tu puoi mettere a fuoco un viso alla volta, molto bella. È tutto merito suo e come sempre dopo che ci viene proposta un’idea e noi l’approviamo, poi è lui che definisce il lavoro ed il risultato finale.  Anche in questo caso si tratta di lasciare esprimere il talento e non metterci sempre bocca.
Come sempre il disco è composto da poche canzoni, raramente superate la decina di brani nuovi. È Questo il frutto di due anni di lavoro o negli archivi resta molto di più?
Come sempre le canzoni erano una quarantina, poi il lavoro di scrematura ha portato a scegliere questi nove brani. In sala prove siamo molto severi, ed è sempre stato così. Nel corso degli anni sono state scartate anche canzoni che a me piacevano in maniera particolare, ma bisogna arrivare a dei compromessi, scegliere insieme e c’è chi fa un passo avanti e chi lo fa indietro, ma tutto deve soddisfare pienamente ciascuno di noi. 
Ma state tenendo traccia di tutto quello che lasciate fuori?
Abbiamo le bozze registrate in maniera artigianale, ma non delle versioni registrate in studio che un domani potrebbero vedere la luce su disco: non credo sia serio dare al pubblico del materiale raffazzonato che non sia completo e registrato come si deve.
Da questa nostra conversazione emerge il tuo grado di soddisfazione per il lavoro che state mettendo sul mercato, che credo sia condiviso da tutti i membri della band: penso che tutto questo emergerà sui palchi dove vi esibirete.
Credo che sia qualcosa che bisognerà cogliere nell’aria, perché i Cheap Wine sono creature strane non sempre disposte a slanci di grande entusiasmo. Devi sapere leggere gli sguardi, interpretare le espressioni dai volti di gente molto restia a metterli in mostra. La stranezza di questo gruppo riflette molto il carattere del pesarese che è un po’ così: solo chi ha vissuto in questa città può comprendere.



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