Intervista a Francesco Veltri autore del libro "Il Mediano di Mauthausen" (Diarkos, 2019)
Da pochi giorni è in libreria il libro edito da Diarkos
“Il Mediano di Mauthausen” del collega Francesco Veltri che
abbiamo incontrato per approfondire i temi della sua opera prima dedicata a
Vittorio Staccione, calciatore morto nel campo di concentramento di Mauthausen.
Com’è nata l’idea del libro partendo dall’ articolo
pubblicato sul sito Mmasciata.it?
“Un po’ di anni addietro, navigando in rete, mi
sono imbattuto nella storia di questo calciatore torinese morto nel campo di
concentramento di Mauthausen. Il mio interesse è cresciuto scoprendo che aveva anche
militato nelle fila del Cosenza, che non è solo la squadra della mia città, ma
anche quella del cuore e che ho seguito per diversi anni da cronista prima, e da
membro dell’ufficio stampa poi, anche se solo per un breve periodo. Così ho
iniziato a fare delle ricerche su Vittorio Staccione, approfondite quel tanto
che potessero bastare per scrivere l’articolo per la rubrica “l’inespresso”
che curo. Devo dire che il pallino di saperne di più mi è rimasto, perché
sembrava una storia più da film che da libro. Circa due anni e mezzo fa una
signora di Castrovillari, che aveva letto il mio articolo, è riuscita a
contattarmi dicendomi che la sorella conosceva il pronipote di Staccione, Federico
Molinario, e che avrebbe potuto metterci in contatto. Da questa fortuita
coincidenza si è arrivati ad oggi con il libro pubblicato da Darkos”.
Questo libro non è una biografia sul calciatore
e neanche un saggio storico sulle atrocità del nazifascimo, forse è più un
romanzo verità. Qual è stata la difficoltà maggiore nell’impostare il lavoro di
stesura?
“Naturalmente lo scoglio più grande è stato rappresentato
dal lavoro di ricerca, perché non bastavano le fonti orali ed i racconti raccolti
attraverso la famiglia Staccione, ma dovevo basarmi su riscontri documentali che
ho trovato negli archivi di Stato e nelle biblioteche di alcune città italiane.
Man mano che raccoglievo il materiale mi sono posto il problema di quale forma
dargli. La biografia? Il saggio? Potevo usare l’una o l’altra forma, ma
trovandomi difronte anche a diversi verbali di Polizia che certificavano i suoi
arresti, quelli avvenuti dopo il ritorno a Torino, quando decise di chiudere la
carriera e tornare a fare l’operaio, unito ai racconti dei familiari, mi sono
reso conto di riuscire a ricostruire anche il privato vissuto da Staccione e
così ho deciso di optare per dare al libro la forma di un saggio romanzato”.
Nella prima parte del libro racconti il sogno
classico di ogni calciatore. Un bambino che viene scoperto su di un campetto di
periferia e portato nel settore giovanile del Torino, dove crescerà inseguendo il
sogno di diventare un calciatore, non tanto per affrancarsi dalle umili origini
di una famiglia operaia e dalla miseria dell’epoca, ricordiamo che siamo agli
albori del ‘900, quanto per dare corpo alla passione per uno sport che stava
nascendo.
“Nel quartiere in cui era nato, Madonna di
Campagna, tutte le famiglie erano operaie ed i bambini giocavano per strada su
campetti dissestati, per cui nulla di altro, se non il divertimento, era alla
base di quelle giornate spese correndo dietro una palla. Se vogliamo parlare di
riscatto sociale questo verrà semmai in seguito quando diventerà un calciatore
affermato, anche perché stiamo parlando di un bambino di 12-13 anni che in una
Torino che stava iniziando a diventare una grande città, la attraversava su di
una bicicletta sgangherata per andare ad allenarsi”.
Accanto alla passione per lo sport, negli anni
dell’adolescenza cresce anche la passione politica in Vittorio Staccione,
alimentata dai discorsi che il padre e, soprattutto il fratello maggiore
Francesco, facevano a casa di ritorno dal lavoro in fabbrica. Questo è l’altro
aspetto importante della sua vita e del libro che la racconta. Due cose che si
fondano per segnarne il destino.
“Questo è stato uno degli aspetti che ho
cercato di approfondire maggiormente, perché pensare ad un adolescente dell’epoca
che inizia ad interessarsi di politica era abbastanza fuori dal comune. Un po’
come succede oggi, dove i ragazzi sono distratti da mille altre cose e
difficilmente nell’età dell’adolescenza si interessano di politica, al
contrario di quanto magari succedeva ai loro genitori”.
Molto dipende, oggi come allora, dall’aria che
si respira in famiglia.
“Esatto. Il papà era socialista, il fratello
pure e rispetto al genitore con una militanza ancora più marcata. Nelle
fabbriche dell’Italia da poco uscita dalla Prima guerra mondiale, c’era un
fermento che portava più o meno tutti a formarsi una coscienza politica. Con l’avvento
del fascismo questo fermento passa alla condizione di opposizione e cresce in
maniera esponenziale. Vittorio cresce assimilando i discorsi del fratello
Francesco al quale si legherà particolarmente, formandosi quella coscienza che li
porterà alla tragica fine nel lager nazista”.
Sarebbe stato facile per un giovane uomo che
diventa calciatore lasciare da parte la politica e vivere appieno il suo sogno, ma
Vittorio Staccione non lo fa. Segno che la famiglia contava molto più del
calcio.
“Non solo la famiglia, quanto soprattutto gli
ambienti che frequentava insieme al fratello Francesco. Lui non dimenticherà
mai le sue origini, il quartiere in cui era nato e gli ambienti in cui crebbe,
tenendoli sempre presenti anche quando diventerà un calciatore affermato. Non
seguirà mai il consiglio del presidente della Fiorentina Ridolfi, amico personale
del Duce, che lo volle fortemente nella sua squadra dopo che lui vinse lo
scudetto in maglia granata, a lasciare da parte le sue idee politiche e godersi
il ruolo di idolo dei tifosi viola e la vita dorata che conduceva nel capoluogo
toscano. Ma lui, nonostante le rassicurazioni che forniva a Ridolfi, non
riusciva a staccarsi dalla militanza politica clandestina che conduceva anche a
Firenze”.
La vita di Staccione è anche una vita che
progressivamente si riempi di sconfitte, dolore e morte, soprattutto quando
perde moglie e figlia appena nata dopo poco tempo dal matrimonio con l’amata Giulia,
conosciuta proprio a Firenze.
“Anche sul passaggio dal Torino alla Fiorentina
ho cercato di soffermarmi nelle ricerche perché, dai documenti che ho visionato
della Società granata, Staccione era considerato uno dei perni sul quale
costruire il futuro della squadra. Quel passaggio alla Fiorentina, che all’epoca
militava in Serie B, lascia molto perplesso: una squadra appena nata e gestita
da un personaggio di grande spessore dell’epoca, perché Ridolfi non era solo il
presidente della squadra toscana, ma era uno dei principali consiglieri di
Benito Mussolini. Se da una parte si può pensare che sia stato mandato via da
Torino per le sue idee politiche, dall’altra ci si chiede come mai lo prende la
squadra di un amico del Duce? Per quanto abbia indagato, non sono riuscito a
capire il motivo, per cui credo solo che dietro questo trasferimento, ci sia
stata una convenienza economica per il Torino ed una sportiva per la Fiorentina
che voleva fortemente approdare in Serie A, come poi avvenne.
I problemi per Vittorio Staccione inizieranno proprio dopo questo trasferimento
e per quanto lui fece per coloro che si opponevano al regime fascista”.
Dopo la prima parte il libro diventa estremamente
doloroso, la vita del protagonista una sorta di discesa agli inferi alla quale
Vittorio Staccione si consegna quasi inerme, segnato indelebilmente dalla
tragedia che ha colpito la bella famiglia che si era appena costruito.
“Un declino doloroso per quello che all’epoca
era considerato uno dei migliori calciatori italiani che scaturisce più che
dalla militanza politica che a Firenze svolge senza lo scudo del fratello,
dalla morte della moglie che ne mina il carattere e la volontà di continuare ad
affermarsi, seppure raggiunga il traguardo della promozione nella massima serie
con la Fiorentina. Psicologicamente non è più lui non solo dal lato sportivo ma
anche da quello della militanza politica, pur continuando ad opporsi al regime fascista”.
Dopo quest’ultimo successo sportivo arriva il
trasferimento a Cosenza, quasi come se fosse stato mandato al confino.
“Un’ingiustizia bella e buona per un calciatore
che non solo non avrebbe dovuto militare in Serie B, per le sue qualità,
figuriamoci allora venderlo ad una squadra di Serie C. Una decisione presa a
tavolino cui Ridolfi dovette soccombere per mandare via questo calciatore
sovversivo e spedirlo addirittura in una lontana città del sud Italia e
distante dal centro del potere fascista che era maggiormente presente nel nord
del paese. Lui arriva comunque in una città all’epoca estremamente fascista, con
poca voglia di giocare ancora al calcio, disputando una stagione alquanto
sottotono. L’arrivo a Cosenza l’anno successivo come allenatore di un suo ex
compagno ai tempi del Torino, gli fanno ritrovare l’amore per lo sport e
assaporare il calore dei cosentini che erano orgogliosi di avere in squadra un
campione d’Italia. Dimostra tutto il suo valore, inizia a vivere pienamente la
città e ritrovare un po’ dell’ardore politico che lo porterà anche a subire un
pestaggio da parte degli squadristi locali”.
Neanche questo ritrovato entusiasmo però lo
risolleva dal dolore della perdita della moglie.
“Cade in una profonda depressione e ben presto
lascerà il calcio per tornare a Torino a fare l’operaio, vivere quasi in miseria, viene spesso fermato dalle forze dell'ordine per i motivi più disparati, come risulta da alcuni verbali di fermo cui viene sottoposto
dalla Polizia. In questi anni il fratello minore Eugenio, anche lui calciatore,
si prende cura di lui ogni qualvolta si mette nei guai”.
Nella miseria in cui piomba diventa ancora più pregnante
l’impegno politico per resistere al regime fascista ed opporsi alle brutture
della Seconda guerra mondiale che di li a poco inizierà.
“È come una cellula di sopravvivenza, anche se
gli crea numerosi grattacapi visto che viene di continuo arrestato e poi
rilasciato, solo perché è un noto sovversivo, schedato e seguito in ogni
movimento. Comincia anche a studiare ed approfondire gli ideali che seguiva, aumentandone
il fervore, portandolo ad attivarsi durante gli scioperi nelle fabbriche fino a
quando nel corso di uno di questi, nel 1944, viene arrestato e spedito a Mauthausen”.
Immagino sia stato difficile ricostruire l’anno
di permanenza nel campo di concentramento austriaco di Vittorio Staccione.
“Attraverso uno degli archivi disponibili dove
sono custoditi i racconti di alcuni dei sopravvissuti a Mauthausen, ho ascoltato
più di trenta lunghissime registrazioni, prima di trovare tracce di Vittorio
Staccione e della sua presenza nel campo: in quale baracca dormiva, il suo
percorso dall’arrivo alla morte, i lavori svolti anche qualche partita giocata
per compiacere chi dirigeva quel luogo”.
Concludendo possiamo dire che “Il Mediano di
Mauthausen” non solo racconta la vita di Vittorio Staccione ma anche gli albori
del mondo del calcio che non sono certamente come quelli di oggi. A chi pensi
sia destinato maggiormente il libro che hai scritto?
“Seppure non legate al mondo del calcio
esistono tantissimi libri che raccontano storie simili a quelle di Staccione.
Credo e spero che questo libro venga letto dai ragazzi, dalle nuove generazioni
che, magari con la scusa del calcio, possano leggere un po’ degli orrori
causati dal nazifascismo. Non è un caso che stiano arrivando tanti inviti da
scuole ed università per presentarlo. Per me è motivo di grande orgoglio poter
presentare la figura di Vittorio Staccione ai ragazzi che vivono in quest’epoca,
diciamo così, confusa nelle ideologie e storie come queste posso aiutare a
comprendere che non bisogna fare distinzioni di alcun genere tra gli esseri
umani”.
Il calcio usato un po’ come un grimaldello.
“Questo sport purtroppo oggi non trasmette
alcun tipo di valore, men che meno quelli dell’antifascismo. Tranne pochi casi
e senza volere accusare nessuno, i calciatori di oggi non trasmetto valori.
Ogni volta che parlano si trincerano dietro frasi fatte e dichiarazioni di
circostanza per cui i giovani non seguono quello che dicono, ma quello che
fanno o come si comportano sui social network, la ricchezza che ostentano e questo
non è un bene per nessuno di noi”.
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