Ride - Interplay (Wichita Recordings/PIAS, 2024)
Quando i Ride apparvero all’alba deli anni Ottanta fu
subito chiaro che sarebbero diventati una delle band di punta della scena
britannica, sebbene planassero in un agone già ricco di band che salite
prepotentemente alla ribalta come i My Bloody Valentine, The Jesus & Mary
Chain e The House Of Love, avevano già messo un segno indelebile su quegli
anni. Ciononostante, con i primi tre EP (Ride/Fall/Play) e soprattutto con
l’album “Nowhere” (1990) il quartetto di Oxford divenne uno dei nomi di
punta della scena shoegaze grazie soprattutto alla capacità di sapere rivestire
gli strati di chitarra con una spiccata vena pop che rappresenteranno il loro
marchio di fabbrica.
Sebbene riuscirono a mettere a segno un altro colpo da novanta con il secondo
eccellente album “Going Blank Again” (1992) e con concerti sempre
più coinvolgenti, si arenarono davanti al cosiddetto “difficile terzo album”.
Infatti, i successivi album “Carnival Of
Light” (1994) e “Tarantula” (1996) decretarono una certa
incapacità a tenere alto il livello delle loro composizioni, tanto da arrivare
a mettere la sigla Ride in stand-by per lunghi 21 anni, prima di ritornare
sulla scene con “Weather Diary” e ridare vita ad una seconda parte di
carriera che è già più lunga di quella
iniziale e che oggi arriva a mettere a punto un album che riesce nel compito in
cui “Canival of Light” aveva fallito.
“Interplay” si dimostra sin dalle prime note del brano d’apertura "Peace
Sign", solido e perfettamente riconoscibile nello stile shoegazer anche perché
subito doppiato da “Last Frontier” altro brano destinato a non fare prigionieri
nei concerti. Ma nel nuovo disco non c’è solo il sound classico della band, ma
anche una ricerca volta a mettere insieme le migliori espressioni del rock
britannico degli anni Ottanta, in una chiave più attuale. Andy Bell e Mark
Gardener si dimostrano ancora oggi degli autori di grande capacità ed insieme a
Steve Queralt e Loz Colbert formano una band solida, arricchendo il suono
chitarristico con inserti elettronici che lo “modernizzano” quel tanto che
basta per evitare di scivolare nel manierismo fine a sé stesso.
Le canzoni che si susseguono sono tutte di pregevole fattura e ricche di
riferimenti a diverse band che hanno fatto la storia della popular music
britannica: nella già citata “Last Frontier” emergono tracce dei New Order,
mentre nell'impetuosa "I Came To See The Wreck" si avverte come sia
stata bene assimilata la lezione dei Depeche Mode.
“Interplay” ai ripetuti ascolti non dimostra di avere punti deboli pur passando
da brani sognanti come “Last Night I Went Somewhere to Dream” a brani riempipista come “Monaco”,
uno degli episodi più energici e contagiosi dell’album.
Altro brano cardine è “Portland Rocks” canzone manifesto del suono Ride riletto
in chiave power-pop, che al tappeto sonoro delle chitarre stratificate
sovrappone melodie vocali accattivanti tipiche delle canzoni perfette. Anche
“Midnight Rider” con il suo incedere sinuoso si dimostrerà essere brano
dall’alto valore anthemico.
Il disco è chiuso dando spazio alla componente più elettronica mettendo da
parte le chitarre in favore dei synth che caratterizzano in maniera
predominante sia “Essaouira" ricco di campioni vocali e sonorità che si
espandono man mano che trascorrono i minuti (è il brano più lungo dell’album),
che la conclusiva “Yesterday is Just a Song” brano dal vago sapore ambient.
Giunti al loro terzo album post-reunion, i Ride sembrano meno
preoccupati di ribadire il loro status di pionieri dello shoegaze e più
interessati alle influenze classiche che li hanno fatti incontrare all'inizio,
realizzando un disco di rock moderno adatto al tempo che passa.
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