Elli De Mon – “Countin’ The Blues – Queens of the 1920’s” (Area Pirata, 2021)

 


Inizio con il fare mea culpa per avere scoperto un’artista come Elisa De Munari solo con questo album, il sesto, che è stato pubblicato da Area Pirata sia in versione vinile che cd. Eppure il suo nome non mi è nuovo visto che ha militato negli Alamdino Quite Deluxe, ma da quanto ha intrapreso una carriera di one-woman band con il nome d’arte di Elli De Mon, girando il mondo in solitario, Elisa ha approfondito il suo amore per il  blues arrivando ad  uno dei suoi massimi punti di espressione  con questo “Countin’ The Blues – Queens of the 1920’s” disco riservato a ripercorrere gli albori del blues attraverso le canzoni di dieci interpreti femminili che hanno rappresentato una vera rivoluzione per i temi trattati nei testi tutti volti all’emancipazione femminile dell’universo black woman.

Il disco è nato dopo che Elisa ha pubblicato il libro “Countin’ The Blues – Donne Indomite (Arcana, 2020) dove ha approfondito gli studi su queste artiste afroamericane che all’inizio del ventesimo secolo aiutarono le donne a trovare la loro voce per farsi sentire. Donne che sfidarono i rigidi limiti imposti dalla morale dell’epoca, guadagnandosi anche una pessima reputazione, ma che furono capaci di usare il blues come mezzo per raccontare la verità ed essere alla costante ricerca di un’emancipazione che appariva lontanissima da raggiungere.
Diviso in 11 capitoli attraverso i quali vengono presentate un’artista con una sua canzone, tratta di temi diversi e approfondisce il contesto storico della comunità afroamericana in ciascuna protagonista viveva per poi affidare il tema ad alcune colleghe della scena artistica italiana odierna, che lo sviluppano in modo personale secondo l’ottica contemporanea.

Il libro, come scrive ottimamente nella prefazione Gianluca Diana, rappresenta “Un atto politico forte, importante e dirompente. Capace di connettere storie, forme di resistenza e di costruzione del futuro, sia soggettivo che collettivo, a prescindere dai canoni temporali, geografici e di razza”. Da leggere assolutamente per meglio comprendere cosa si cela dietro al disco, sulla scelta delle canzoni da interpretare e sulle loro autrici più (Bessie Smith, Ma Rainey) o meno (Lottie Kimbrough) note al grande pubblico.

La versione in vinile del disco si apre con la facciata elettrica dove Elli De Mon mostra tutta la sua maestria non solo di polistrumentista, quanto di ottima arrangiatrice, restituendo una carica ancor più rabbiosa a brani come “Prove It On The Blues” di Gertude Ma' Rainey sferragliante sulle linee disegnate dalla slide guitar, per poi passare a “Blue Spirit Blues” di Bessie Smith salmodiata dapprima come l’originale per poi venire rivestita di un oscuro quanto intrigante mantra sonoro che ne eleva la carica mistica. Il classico “Downhearted Blues” di Alberta Hunter viene anch’esso caricato di elettricità e spinto sull’acceleratore nei territori del garage rock, così come “Shave ‘Em Dry” di Lucille Bogan che sembra uscire da uno dei dischi migliori di PJ Harvey. Ma uno dei capolavori di arrangiamento Elli De Mon lo mette in atto quando prende in mano il sitar per trasformare “Dope Head Blues” di Victoria Spivey che viene trasformato in un mantra psichedelico.

Il Lato B dell’album presenta versioni un po’ più canoniche rispetto agli originali, partendo dalla leggendaria “Freight Train” scritta dalla giovanissima (14 anni!) Elizabeth Cotten ed interpretata dalla De Mon, con un delicato tocco acustico di fingerpicking quasi fedele all’originale. “When The Levee Breaks” di Memphis Minnie viene trattata anch’essa allo stesso modo accentuandone la leggerezza con un piglio più vivace. Il brano successivo pesca nel repertorio di una delle artiste meno conosciute dell’intero lotto, vale a dire Lottie Kimbrough della quale viene ripresa "Wayward Girl Blues" vivacizzata sul finale da un handclapping.

“Trouble In Mind” di Bertha 'Chippie' Hill che nella versione originale contiene un bel featuring di Louis Armstrong viene scarnificata e riportata nell’alveo più classico del blues con un arrangiamento acustico molto lento che sembra voler mettere in risalto il lato più delicato della femminilità di queste donne indomite.

Nella versione in vinile in chiusura del disco viene posta come bonus track  “Last Kind Words” di Geeshie Wiley che viene elettrificata e trasformata in un raga  come quello posto in chiusura del lato A, quasi a sugellare la chiusura di un cerchio di un disco al quale va riconosciuto non solo l’ottimo spessore artistico che lo permea, quanto la meritoria opera di tenere accesa una luce su queste grandi donne e sulla loro arte oramai quasi dimenticata.




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