Recensione NAMES - Names (Autoproduzione, 2025)
La cittadina di Rye, località balneare paradiso dei
kitesurfisti, situata nella penisola di Mornington, nello Stato di Victoria, in
Australia, è apparsa nella mia personale mappa del rock australiano, con
l’esplosione della Legless Records fondata dal bassista degli Stiff
Richards, Arron Mawson e che ha pubblicato dischi di grande spessore come
quelli di cutters, Doe St., Split System e altri, oltre naturalmente a quelli
degli stessi Stiff Richards. Dischi per lo più associabili al punk e suoi
sottogeneri che hanno impresso un carattere ben specifico alla musica prodotta
nella cittadina sita nel territorio tradizionale del popolo Boon wurrung (Bunurong)
della nazione Kulin.
Con un po’ di sorpresa, ma forse neanche tanto visto come è
variegato il rock australiano dei giorni nostri, mi sono imbattuto navigando su
Bandcamp nei Names, attratto proprio dalla città di provenienza.
Il sestetto di Rye ha labili punti di contatto con il mondo
della Legless, forse solo con i Doe St., perché propone una miscela di unisce
psichedelia, alt-country e rock 'n' roll in un sound all’apparenza caotico ma
che sembra comunque ben ponderato.
Dopo due singoli digitale “This You” e “Sit Back
Down” pubblicati lo scorso anno, che mettevano maggiormente in evidenza il
lato rock/alt-country della formazione, l’omonimo disco d’esordio appena
pubblicato, mette maggiormente in evidenza il lato psichedelico della band,
completandone la visione d’insieme che rende particolarmente interessante la
musica dei Names.
Aperto da un breve ipnotico strumentale, l’album piazza in
successione due dei singoli estratti che hanno anticipato l’uscita del disco.
“Familiar” parte con una linea di basso e batteria che ricorda molto i
Motorpsycho, lanciandosi in una cavalcata ipnotica che confonde i confini tra
come siamo visti e chi siamo realmente cercando di evidenziare i confini tra
identità, percezione e le maschere che indossiamo. Un brano che sa in parte di confessione, in
parte di confronto e che proseguirà a metà dell’album con la seconda parte
denominata “Stranger”.
“Bygones” è di sicuro uno dei brani di punta del
disco, una canzone che parla di perdono ferito e del tentativo - e forse del
fallimento - di andare avanti senza chiudere con il passato. L’incedere del
brano che viaggia sui territori alt-punk sembra quasi gioioso con i suoi cambi
di ritmo e le chitarre di Paul Gray e Jarrod Dexter che si rincorrono
mentre l’alternarsi delle voci maschile e femminile di Fergus Lawson e Sammy
Rayne, lo rendono estremamente radiofonico, nonostante la tematica non
propriamente solare.
Poi il disco ritorna su atmosfere psichedeliche con lo
strumentale “Burra” tutto giocato sulle percussioni di Hannes
Lackmann messe in primo piano ma disturbate dai synth di Jarrod Dexter che
prepara il terreno alla lunga ballata country psichedelica di “Extremely
Weathered” che richiama l’eccellenza di band come i Walkabouts e che sfocia
senza soluzione di continuità nel raga ipnotico di “Opinion Den”.
Lo strumentale “Pacific Gull” apre il lato B del
disco su atmosfere acustiche quasi folk, in cui si intravede ancora una delle
tante facce dei norvegesi Motorpsycho, chissà se mai ascoltati dai Names.
“Tick It Up” è un altro dei brani cardine di questo
disco. Una ballata avvolgente giocata sul basso di Nick Davidson e la
batteria con le esplosioni chitarristiche nei momenti di crescendo, che
racconta della ricerca del sogno australiano e la dicotomia con una vita
“normale” i n cui ci si accontenta di avere una casa, un lavoro e di creare una
famiglia, continuando a sognare una vita “migliore” incarnata nel desiderio di
avere cose nuove e belle. Il protagonista, infatti, si chiede: Forse abbiamo
bisogno di una nuova auto e di una roulotte/e cavolo, non sarebbe bello anche
avere una barca? Con tutta l’amarezza espressa come un mantra nel refrain
di Tick It Up, “Vuoi tutto ma non te ne frega niente/Se non hai
soldi, basta segnarlo/Segnalo, segnalo/Tutto il giorno speri nella
fortuna/Segnalo, segnalo/Risparmia e spera nella fortuna”.
A seguire ancora una preziosa ballata come “Torres Del
Paine” che certifica l’ottimo songwriting di una band che più che
all’esordio discografico, sembra avere una carriera consolidata alle spalle. Il
disco si avvia alla conclusione dapprima con un altro strumentale dall’incedere
psichedelico come “It Tends to Feel Like A Lifetime” tutto giocato su di una
ritmica serrata, chitarre scintillanti e synth e keyboards che competono di par
loro.
Molto strana invece è la chiusura di un disco così elettrico
affidata ad una ballata come “Raindrops” quasi del tutto acustica e che
sembra rimandare al miglior cantautorato di matrice rock, con una melodia che
si fissa subito in mente sin dal suo primo ascolto. Per quanto strana e
all’apparenza avulsa dal contesto, la chiusura di Raindrops è il sugello
perfetto per un disco tanto sorprendente quanto variegato nelle atmosfere che
si susseguono, che sono sicuramente ben messe a fuoco da una band coesa che
certamente ha centrato l’obiettivo prefissato e dalla quale ci si possono
aspettare molte cose buone in futuro.
Pubblicato la prima volta su Freak Out Magazine il 06/10/2025

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