Recensione Father John Misty – Mahashmashana (Sub Pop, 2024)

 


Mahashmashana potrebbe essere l’ultimo album che Josh Tillman firma come Father John Misty? È un’associazione piuttosto facile da fare già solo a partire dal titolo dell’album: Mahashmashana, un'anglicizzazione di mahāśmaśāna, la parola sanscrita che indica il terreno di cremazione: la terra bruciata prima della prossima vita. Ma potrebbe anche non essere così, nonostante in tutto l’album Tillman riflette sul passato e sulle sue esperienze di vita utilizzandole sempre in accezione ampia come ha fatto nei precedenti cinque album pubblicati con il moniker di Father John Misty.

Mahashmashana è un album impegnativo seppure composto da soli otto brani ma che hanno spesso un minutaggio che va oltre i cinque minuti, raggiungendo il picco nella title track posta in apertura e che dura oltre nove minuti. I temi trattati sono pesanti come l'egoismo, la misoginia, l'amore, la difficoltà di amare e le varie strumentalizzazioni e contraddizioni della società, ma la musica che li riveste riesce spesso ad dilatarne i contorni.  E non è un caso che il disco si apra in questo modo proprio per mettere subito in evidenza il mood orchestrale che riveste l’album, fatto di brani finemente arrangiati da Drew Erickson che coproduce il lavoro, che collocano il lavoro nella tradizione del miglior pop-rock orchestrale degli anni Settanta.

Nei nove lunghi minuti del brano d’apertura viene subito spazzata via l’idea di trovarci davanti ad un album triste e cupo come potrebbe far credere il titolo, ma ci si lascia piacevolmente coinvolgere dalla maestosità dei suoni, mentre il testo snocciola la tipica finezza poetica di Tillman sempre più criptica. Il brano appare come una ballata epica con un testo surreale che allude alla “prossima alba universale” dove FJM parla delle bugie che raccontiamo a noi stessi e agli altri e del fascino di nascondersi alla realtà, in una sorta di perenne autoanalisi che ricorrerà spesso nei brani successivi.

Dopo la maestosità della title track, arriva swamp-blues di “She Cleans Up”, l'unica vera canzone rock dell'album che riflette sul fallimento degli uomini. Il tono si smorza subito dopo con “Josh Tillman and the Accidental Dose” classico brano finto autobiografico in cui appare come protagonista. Nel brano si racconta di una serata romantica che finisce a casa di una donna che “ha messo su Astral Weeks/ ha detto ‘I love jazz’ e mi ha fatto l'occhiolino” mentre glia archi vengono utilizzati in maniera sghemba quasi a volere contrastare la melodia, invece che rafforzarla.

“Mental Health” analizza l'ossessione della società per la guarigione e i traumi: mettendo su un arrangiamento scintillante, ricco di archi mielosamente rassicuranti che siamo condizionati ad associare alla scomparsa dei nostri problemi. A questo si aggiunge un delizioso strato di ironia mentre Tillman canta versi come “Mental Health / No one knows you like yourself / You two should speak / In the presence of a licensee” (“Salute mentale / Nessuno ti conosce come te stesso / Voi due dovreste parlare / In presenza di un responsabile”).

“Screamland” oltra ad essere uno dei singoli estratti dall’album appare come une dei momenti cardine del disco: pur essendo un brano dal testo estremamente cupo “It's always the darkest right before the end” (È sempre il momento più buio prima della fine), contiene dei ritornelli accattivanti innestati su di una melodia che richiama quella di “Mahashmashana”.

In “Being You” scava ancora più a fondo: “Sotto la pelle non siamo un granché/ Un vero casino dove deve risiedere l'anima”. È una canzone che parla di non sapere bene come essere umani, di sentirsi disconnessi da sé stessi e dalla società a un livello fondamentale, ma di stare al gioco dei convenevoli perché cos'altro si può fare?

In “I Guess Time Makes Fools Of Us All”, brano già inserito come inedito nel suo recente “Greatest Hits”, Tillman torna a raccontarsi in prima persona citando il suo rifiuto ad apparire in copertina su Rolling Stone e su come dalla famosa rivista glia hanno detto che è “facilmente la persona meno famosa” ad aver rifiutato la copertina.

In definitiva Father John Misty mette a segno l’ennesimo colpo da maestro realizzando un album che sembra un grande trattato antropologico sorretto da una colonna sonora a tratti maestosa con gli archi, gli ottoni e i fiati che sono fondamentali per il tessuto del disco. E se questo sarà l’ultimo capitolo della saga FJM risulterà una degna conclusione di un percorso artistico di notevole spessore, e se continuerà non potremmo che beneficiarne come ogni amante della buona musica che si rispetti.




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