Recensione - Mercury Rev - Born Horses (Bella Union, 2024)
Nel mondo musicale che più amiamo e seguiamo, sta diventando una costante a tratti predefinita, quella di ritrovare le band che più amiamo, dopo un lungo lasso di tempo più o meno trascorsi fuori dalle rotte di un mondo che somiglia sempre più ad una discarica, piena di gruppi che si assomigliano e di gruppi che inseguono l'ultima moda sonora. Per questo molto spesso sentiamo il bisogno di aggrapparci agli artisti che hanno rappresentato un antidoto al conformismo del rock, che per fortuna esistono e sono lì pronti ad accoglierci nel loro mondo sicuro e confortevole, anche quando sembrano cambiare decisamente pelle come si potrebbe pensare dei Mercury Rev, dopo i primi ascolti di questo nuovo album.
“Born Horses” è il loro primo album di materiale in nove
anni - con i nuovi membri Jesse Chandler e Marion Genser che ora affiancano il
duo principale composto da Sean "Grasshopper" Mackowiak e Jonathan
Donahue - da “The Light in You” del 2015 e seguito di “Bobbie Gentry's The
Delta Sweete Revisited”del 2019, che altri non era che una versione
reimmaginata del classico southern soul del 1968 di Bobbie Gentry con una
diversa voce femminile in ogni brano.
Questo nuovo disco dei Mercury Rev è unico nel suo genere,
non solo perchè Jonathan Donahue piuttosto che cantare, parla per creare un
effetto che mette in risalto la natura poetica dei suoi testi opachi, ma anche
per le diverse ispirazioni citate nel comunicato stampa di presentazione: la
colonna sonora di Blade Runner di Vangelis, Sketches of Spain di Miles Davis,
Chet Baker, il compositore/musicista minimalista e socio di LaMonte Young Tony
Conrad e il poeta beat Robert Creeley. Tutte le fonti citate si possono
ritrovare in maniera più o meno esplicita nelle canzoni di questo “Born
Horses”, che potremmo definire come un album di spoken word stratificato con
una visione poetica che parla di cuori erranti, sbalzi d’umore, sogni di
libertà e ricerca di una qualche connessione che possa unire natura e musica.
Un disco oscuro in cui, con uno stato d’animo altalenante, esaminare le proprie
fragilità prima di raggiungere la consapevolezza di accettarle.
Per farlo molto spesso i Mercury Rev vanno spesso alla
deriva nella fantasia, come la lenta e ampia title track, che immagina un
mitico mondo equino abitato da cavalli selvaggi e volanti, invece che da esseri
umani. Mentre nell'ombroso noir jazzistico di "Mood Swings" che apre
il disco, fluttua lungo una linea di tromba ordinata, con una batteria
delicata, un basso inquietante e uno strano violino che stuzzica la musica
insieme alla sceneggiatura di Donahue che parla di come "Notte dopo
notte i miei sbalzi d'umore vanno e vengono a loro piacimento, ribelli
adolescenti capricciosi incapaci di decidere, vorrei tanto che mi
decidessero".
Altro brano cardine dell’album è "Your Hammer, My
Heart" con il suo incedere ipnotico racconta di una relazione amorosa che
non finisce bene: "e come il regista che sei, mi hai dato la mia prima
grande occasione quando mi hai dato la mia prima parte tragica, vicino alla
fine, dove la trama si capovolge e il tuo martello incontra il mio cuore".
“Born Horses” è un
album pieno di perdita di qualcosa di importante ma con dei barlumi di speranza
che affiorano di tanto in tanto come quando in
"Everything that I thought I had lost", Jonathan Donahue, in
un'improvviso afflato di speranzosa chiarezza, dice: "Tutti quelli che
pensavo di aver perso, uno per uno, continuo a trovarli, tutti quelli che
pensavo di aver perso, continuo a ritrovarli".
Se proprio vogliamo trovare un difetto a questo ritorno dei
Mercury Rev potremmo dire che nell’insieme i brani suonano un po’ tutti troppo
uguali tanto da essere difficilmente distinguibili gli uni dagli altri immersi
come sono in questo pop denso, cinematografico e orchestrale, mescolato a suoni
ambientali che a tratti non convincono appieno.
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