The Dream Syndicate – Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions (Fire Records)

Scritto per Freakout Magazine e pubblicato il 28/06/2022 


Giunti a celebrare il 40mo anniversario del loro magnifico disco d’esordio “The Days Of Wine & Roses” (Slash, 1982) che insieme all’omonimo EP che lo aveva preceduto di poche settimane, hanno decodificato uno dei tanti sottogeneri del rock, vale a dire il Paisley Underground, i The Dream Syndicate continuano a fare quello che il loro leader Steve Wynn ha sempre ricordato riguardo al perché nacque una delle formazioni più influenti della musica rock: “suoniamo la musica che vogliamo ascoltare perché nessun altro la fa”.
Ancora oggi è così come hanno dimostrato non solo i quattro album incisi nella prima fase che va dal 1982 al 1989, ma anche quelli che stanno caratterizzando la seconda brillante vita del Sindacato del Sogno che, ripartita dal 2012 solo per tornare a suonare in concerto le vecchie canzoni, ha trovato nuova linfa con la pubblicazione di How Did I Find Myself Here? (Anti) nel 2017 e che con questo “Ultraviolet” pareggiano il conto degli album in studio a quattro per ciascun periodo.
Altra caratteristica mantenuta è la solidità della formazione che ruota intorno al talento cristallino del songwiter Wynn affiancato dai fidi Dennis Duck alla batteria e Mark Walton al basso, sin da subito successore di Kendra Smith. Jason Victor come chitarrista principale ha scalzato definitivamente i suoi predecessori Karl Precoda e Paul B. Cutler che si divisero il ruolo nella prima fase della bandLa novità che viene introdotta dal nuovo disco è l’ingresso in pianta stabile dell’ex Green On Red Chris Cacavas alle tastiere, da anni accompagnatore nelle scorribande live di Wynn e soci che ora mette al servizio della band non solo la sua abilità sullo strumento, ma anche il suo talento di compositore.  
Rispetto a “The Universe Inside” che lo ha preceduto due anni fa, e che era un album dove la band dava libero sfogo alla loro anima più sperimentale e vicina ai teutonici Can, Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions riporta la band alla forma canzone seppure infarcita da tutte le influenze che da sempre caratterizzano il suono dei Dream Sydicate.
Il disco si apre con “Where I’ll Stand” con l’intro al synth di Cacavas che omaggia chiaramente gli Who, per poi liberare i riffs di chitarre che ricalcano le atmosfere espresse in dischi del nuovo corso come “These Times” e immergono l’ascoltatore nel mood psichedelico dell’album, nel testo Wynn esprime una chiara dichiarazione d’intenti quando recita: “I’m for biting off/More than what I planned/I’ll be around when it’s over/This is where I’ll stand” (“Sono per azzannare/più di quello che ho pianificato/Sarò in giro quando sarà finita/Questo è il mio posto”).
I due brani successivi sono tra i migliori del disco.  In “Damian” le chitarre si ammorbidiscono e diventano melliflue, l’incedere della canzone sposta il disco sul piano della ballata, le atmosfere si rarefanno ed inizia a prendere corpo una sorta di narcolessia (intesa in senso positivo) lisergica che diventerà la sensazione principale che si avvertirà alla fine del disco, nonostante alcuni picchi che rinverdiscono atmosfere che mischiano garage e power pop (“Straight Lines”) con il post-punk che fa capolino in “Trying To Get Over”, forse il brano che ha più legami  con il passato.
A seguire arriva il brano manifesto dell’album, “Beyond Control” scritto da Wynn e Chris Cacavas e maneggiato con cura dai loro compagni. Sulla solidità ritmica che crea un beat motorik, le chitarre si stratificano e riempiono la melodia del brano in una continua scesa che però non raggiunge volutamente il punto del climax, mantenendo così sempre alta la tensione. Un invito a lasciarsi andare come canta Wynn nel testo. 
In tutto il resto dell’album si avverte il senso di libertà che i musicisti hanno respirato in fase di composizione, non lasciandosi ingabbiare in un genere prestabilito, in modo da potere sfiorare il surf (“Every Time Come Around”) oppure il country venato di soul (“Hard To Say Goodbye”), così come richiamare le raffinate atmosfere notturne in “My Lazy Mind”, e l’amore mai sopito per Lou Reed (“Lesson Number One”).
Alla fine, si ha la sensazione che il nuovo corso dei Dream Syndicate sia pari, se non migliore di quello sviluppatosi negli anni ottanta, e questo è il segno di una band solida che ha saputo sfruttare la voglia di riunirsi per esplorare strade nuove e non solo rinverdire il passato con l’intento di passare finalmente all’incasso. Segno evidente che ci troviamo davanti, se mai ce ne fosse bisogno, ad una grande rock band.

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